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Cass Sez. 3, Sentenza n. 24294 del 07/04/2010
Psicolo incaricato dal TM di seguire il minore, incompatibilità a testimoniare, inussistenza
Cass Sez. 3, Sentenza n. 24294 del 07/04/2010 Ud. (dep. 25/06/2010 ) Rv. 247869
Presidente: De Maio G. Estensore: Amoresano S. Relatore: Amoresano S. Imputato: D. S. B.. P.M. Izzo G. (Conf.)
Non sussiste alcuna incompatibilità a testimoniare, nel processo a carico di un minore vittima di abusi sessuali, dello psicologo psicoterapeuta prima nominato dal Tribunale dei Minorenni con l'incarico di seguire il minore abusato e, poi, dal P.M. quale consulente tecnico nel procedimento penale, in quanto la nozione di "ausiliario" (art. 197, comma primo, lett. d), cod. proc. pen.) deve essere intesa nel suo significato tecnico, non potendo in essa ricomprendersi soggetti che detta funzione non rivestono.
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
- D.S.B.S.M., nata il (OMISSIS); avverso la sentenza del 12.1.2009 della Corte di Appello di Firenze; sentita la relazione fatta dal Consigliere Dr. Silvio Amoresano; sentite le conclusioni del P.G., Dr. Izzo Gioacchino, che ha chiesto il rigetto dei ricorsi; sentiti i difensori, avv. Turco C., in sost. avv. Niccolai Andrea, e avv. Gambogi Gianluca, che hanno chiesto l'accoglimento dei ricorsi.
OSSERVA
- Con sentenza in data 12.1.2009 la Corte di Appello di Firenze confermava la sentenza emessa dal Tribunale di Pistoia il 14.1.2008, con la quale D.S.B.S.M. era stata condannata alla pena di anni otto di reclusione per i reati di cui ai capi a), b) e c) della rubrica, riqualificati come violazioni dell'art. 609 quater c.p., u.c., per aver, in concorso con S.A., costretto il figlio infracinnquenne di quest'ultimo, a subire ed a compiere atti sessuali (capo a), per aver in concorso con il medesimo S. costretto il figlio minore della D.S. a subire ed a compiere atti sessuali (capo b), e per avere, in concorso con il S., indotto il figlio minore della D.S. a compiere atti sessuali sul figlio minore del S. (capo c), per il reato di cui agli artt. 81 cpv., 110 e 609 quinquies c.p. perché, in concorso con il S., compiva atti sessuali in presenza dei due predetti minori al fine di farli assistere (capo d), per il reato di cui all'art. 81 c.p., art. 388 c.p., comma 2, perché eludeva l'applicazione dell'ordinanza del Tribunale per i Minorenni di Firenze che le imponeva di non vedere il figlio minore. Dopo aver ricordato i fatti e richiamato la motivazione della sentenza del Tribunale, la Corte territoriale, disattendeva i motivi di appello proposti nell'interesse della D.S.. Infondate, secondo la Corte, erano le eccezioni in rito. La modifica delle imputazioni effettuata dal P.M. all'udienza preliminare, prima della discussione, in presenza dei difensori che non avevano sollevato alcuna opposizione, non andava notificata all'imputata contumace, in quanto nell'udienza preliminare tutto il materiale probatorio raccolto può e deve essere rivisitato ai fini della definitiva formulazione dell'accusa. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 384 del 25.10.2006, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 423 c.p.p., comma 1 nella parte in cui non prevede la notifica all'imputato contumace della modifica dell'imputazione mediante contestazione di una circostanza aggravante. Infondata era anche l'eccezione di inutilizzabilità della deposizione della dottoressa B. e delle valutazioni da essa compiute sull'attendibilità del minore S.. Tale incapacità non poteva derivare dal fatto che la medesima aveva espletato l'incarico affidatole dal Tribunale per i Minorenni, in quanto per procedimento connesso deve intendersi solo quello di carattere penale in relazione a quanto previsto dall'art. 12 c.p.p., nè dalle funzioni svolte dalla dr.ssa B. in collaborazione con il P.M., non avendo la predetta mai rivestito il ruolo di ausiliario (comunque l'acquisizione di conoscenza dei fatti narrati era avvenuta progressivamente a partire dal (OMISSIS) quando era stata investita dell'incarico di seguire il bambino prima dai servizi sociali e poi dal Tribunale per i Minorenni). Non vi era quindi, secondo la Corte territoriale, alcuna incompatibilità della B. ad essere nominata come consulente del P.M o incapacità a rendere dichiarazioni. Quanto al "merito", nel rinviare per relationem alla condivisibile motivazione della sentenza di primo grado, disattendeva tutte le doglianze difensive.
- Propone ricorso per Cassazione D.S.B.S.M., a mezzo del difensore (avv. Gianluca Gamboci), eccependo con il primo motivo la nullità della sentenza derivante dalla omessa declaratoria di nullità del decreto che dispone il giudizio per violazione dell'art. 178 c.p.p., lett. c) e art. 181 c.p.p. La Corte territoriale ha rigettato l'eccezione sul presupposto erroneo che la scelta del rito premiale debba essere valutata non in relazione all'imputazione contestata ma a tutti i possibili sviluppi degli atti delle indagini preliminari e quindi anche della modifica dell'imputazione. Tale assunto viola apertamente il diritto di difesa. La valutazione della possibilità di accedere ai riti alternativi viene effettuata dall'imputato, con l'assistenza del difensore, al momento della ricezione del decreto di fissazione dell'udienza preliminare. È del tutto evidente che la riformulazione dell'imputazione (con eventuale inasprimento della sanzione prevista) comporta la necessità di una nuova valutazione, che non può certo essere effettuata dal difensore munito di procura speciale. Di qui la necessità della notifica della nuova contestazione all'imputato contumace. La sentenza della Corte Costituzionale n.384/06 richiamata dalla Corte territoriale è collegata al caso concreto prospettato nell'ordinanza di rimessione e non ai principi generali di eguaglianza e diritto di difesa dell'imputato richiamati in precedenti sentenze della stessa Corte Costituzionale (n. 265/94, n. 214/03), non potendo l'imputato essere penalizzato dalla mancata corretta formulazione dell'imputazione da parte del P.M.. Con il secondo motivo solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 423 c.p.p. in relazione agli artt.3 e 24 Cost. nella parte in cui non prevede la comunicazione dell'avvenuta modifica dell'imputazione o di parte di essa all'imputato contumace. Assume che, ove si ritenga corretta l'interpretazione della norma fornita dalla Corte territoriale, la Consulta debba essere nuovamente investita della questione giuridica che attiene all'esercizio del diritto di difesa. Con il terzo motivo eccepisce la nullità della sentenza per inosservanza di norme stabilite a pena di inutilizzabilità. Le dichiarazioni, rese dal C.T. del P.M. dr.ssa B. e la sua relazione, acquisita agli atti, sono inutilizzabili. È pacifico che la dr.ssa B. aveva seguito il minore, essendo stata incaricata dal Tribunale per i Minorenni, redigendo relazione. La dr.ssa B. quindi non avrebbe potuto accettare la nomina a consulente stante l'incompatibilità prevista dal combinato disposto dell'art. 225 c.p.p., e art. 222 c.p.p., lett. e). L'assunto della Corte territoriale secondo cui il procedimento connesso è solo quello di natura penale è in contrasto con il dettato normativo che non fa alcun cenno a tale "limitazione" (anche un procedimento civile in cui il consulente sia chiamato ad esprimersi comporta invero lo stesso pregiudizio di conoscenza che la norma vuole evitare). Peraltro la dr.ssa B. aveva svolto il ruolo di ausiliario del P.M., per cui non poteva essere chiamata a testimoniare e quindi a prestare l'ufficio di consulente o perito. Con il quarto motivo denuncia la omessa e contraddittoria motivazione in relazione all'attendibilità delle dichiarazioni rese dai testi nel corso dell'istruttoria dibattimentale in relazione: a) alla collocazione/compatibilità dei fatti contestati con quelli accertati in corso di istruttoria; b) alla attendibilità di M.; c) alla figura degli abusanti come descritta prima alla dr.ssa B., poi in sede di registrazione, ed ancora nell'incidente probatorio ed ai luoghi dei presunti abusi; d) al verificazionismo della dr.ssa B. evidenziato dalla difesa e dai suoi consulenti; e) alla cassetta registrata; f) all'incidente probatorio. Chiede pertanto l'annullamento della sentenza impugnata. 2.1) Propone ricorso per Cassazione nell'interesse della D.S. l'altro difensore avv. Andrea Niccolai. Dopo un riepilogo della vicenda processuale, denuncia la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla descrizione ed alla successione cronologica degli accadimenti. Con il secondo motivo denuncia la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla deposizione della teste - parte civile G.C., ritenuta incondizionatamente credibile nonostante tutti i rilievi contenuti nell'atto di appello, ed ai possibili condizionamenti su M.; nonché in ordine alla memoria del bambino ed alle modalità dell'intervista. Con il terzo motivo denuncia la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla mancanza di riscontri al racconto di M. (assenza di dolori o altri segni fisici). Con il quarto motivo denuncia la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla testimonianza di F. ed alla consulenza della dr.ssa B.. Con il quinto motivo denuncia la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla consulenza tecnica del P.M. ed alla sua valenza probatoria. Con il sesto motivo denuncia la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, nonché la inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 43 c.p. e art. 609 quinquies c.p. quanto al capo d) dell'imputazione, non essendovi prova di esibizioni sessuali davanti ai due minori. L'unico episodio di cui parla M. (il gioco del pisello nel sedere fatto dal padre con S.) è privo del benché minimo riscontro. Con il settimo motivo denuncia la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione nonché la inosservanza od erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 43 e 388 c.p.. Con l'ottavo motivo denuncia la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, nonché la violazione di norme processuali in relazione alla richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale (era stato chiesto di esaminare il consulente della difesa Bo., nominato in sede di perizia, ammesso e poi revocato dal tribunale con ordinanza che era stata impugnata unitamente alla sentenza). Con il nono motivo denuncia la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, nonché la violazione di legge in relazione all'art. 62 bis e 133 c.p.. Con memoria ex art. 121 c.p.p. del 14.1.20010 i difensori, ad integrazione ed ulteriore specificazione dei motivi di gravame, allegano e depositano tutti gli atti richiamati nei motivi medesimi.
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Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.
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Vanno preliminarmente esaminate le eccezioni in rito.
- Quanto alla eccepita nullità del decreto che dispone il giudizio per omessa notifica all'imputata della imputazione riformulata in sede di udienza preliminare, non sussiste alcuna violazione dei diritti di difesa, come già correttamente evidenziato, con il richiamo anche della sentenza della Corte Costituzionale n. 384 del 2006, dalla Corte territoriale. In detta decisione si osservava, innanzitutto, che "..non è in realtà contestabile che, nella situazione considerata dal giudice a quo, l'impossibilità di proporre la richiesta di rito speciale a fronte della mutata imputazione in udienza preliminare - stanti le previsioni dell'art. 438 c.p.p., comma 3 e art. 446 c.p.p., comma 3, in forza delle quali il giudizio abbreviato e il patteggiamento debbono essere richiesti dall'imputato personalmente o a mezzo di procuratore speciale- consegua ad una duplice volontaria scelta dell'imputato medesimo; quella di rimanere contumace in detta udienza e quella di non conferire una procura speciale al difensore, che lo abiliti, in via preventiva, a presentare la richiesta di rito alternativo in sua assenza (così come consentito dall'art. 37 disp. att. c.p.p.). E si aggiungeva: "La modifica dell'imputazione nell'udienza preliminare e - in particolare, la contestazione, nel corso di essa, di una nuova circostanza aggravante - non è, d'altro canto, un evento imprevedibile. In linea generale, difatti, l'udienza preliminare, nell'architettura del nuovo codice di rito (per questo verso non incisa dalla L. n. 479 del 1999), si connota per una maggior "fluidità" dell'addebito, il quale si "cristallizza" solo con il provvedimento che dispone il giudizio. Ma soprattutto, l'evenienza di cui si discute non è imprevedibile nella specifica ipotesi che forma oggetto del quesito: vale a dire quando il mutamento si basi non su nuovi dati emersi nel corso dell'udienza, ma su elementi già desumibili dagli atti di indagine. Si tratta, infatti, di elementi che l'imputato ha avuto modo di conoscere e di valutare- anche sotto il profilo della loro idoneità a propiziare "incrementi" dell'imputazione esposta nella richiesta di rinvio a giudizio- a seguito del deposito effettuato ai sensi dell'art. 415 bis c.p.p." Concludeva pertanto la Corte Costituzionale che "... se ne deve desumere che - contrariamente a quanto sostiene il giudice a quo- l'eventuale preclusione all'accesso ai riti alternativi non può considerarsi di per sè lesiva del diritto di difesa, traducendosi, nella sostanza in un "rischio> che l'imputato volontariamente si assume con la duplice scelta dianzi indicata. Che la decisione dell'imputato di non presenziare al processo a suo carico si atteggi essa stessa come "scelta difensiva" non suscettibile di venir conculcata (sentenza n.301 del 1994), non esclude, difatti, che tale opzione implichi comunque l'accettazione delle eventuali conseguenze sfavorevoli derivanti dall'impossibilitò del compimento di atti processuali che presuppongono la presenza del giudicabile". Al di là del caso concreto (contestazione di circostanza aggravante all'udienza preliminare nei confronti di imputato contumace) in ordine al quale il giudice remittente aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 423 c.p.p., comma 1, dalla sentenza sopra richiamata sono enucleabili tre fondamentali principi di carattere generale: a) l'udienza preliminare nel nuovo codice di rito si connota per una maggiore fluidità della imputazione e nell'ambito della stessa tutto il materiale probatorio può e deve essere rivisitato ai fini della definitiva formulazione dell'addebito; b) l'imputato, attraverso il deposito ai sensi dell'art. 415 bis c.p.p., ha la possibilità di conoscere, anche attraverso l'ausilio del difensore, il materiale probatorio esistente e l'idoneità quindi dello stesso ad evolvere verso nuove contestazioni; c) pur essendo la scelta di rimanere contumace un insindacabile diritto dell'imputato, egli si assume il rischio di non poter compiere determinati atti processuali. L'imputato, quindi, conoscendo gli atti e consapevole della fluidità dell'addebito, può, in via preventiva ed in piena autonomia, decidere la strategia processuale. Può decidere di rimanere contumace, con il rischio, però, in presenza di contestazioni suppletive di non poter richiedere riti alternativi, oppure delegare un procuratore speciale che possa in sua vece esercitare quelle facoltà. Tale possibilità rimessa alla scelta discrezionale dell'imputato medesimo esclude, quindi, palesemente che ci si trovi in presenza di una violazione dei diritti di difesa. Sicché è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 423 c.p.p. (peraltro già ritenuta tale dalla Corte Costituzionale).
- Infondata è anche l'eccezione di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal consulente del P.M. e della sua relazione. Innanzitutto non vi era alcuna incompatibilità a testimoniare o a prestare l'ufficio di consulente, non avendo mai la dr.ssa B. assunto il ruolo di ausiliario del P.M. Questa sezione, con la sentenza n. 42721 del 9.10.2008, richiamata anche dalla Corte territoriale, ha ribadito che il termine "ausiliario" debba essere inteso in tecnico (come soggetto appartenente a personale di cancelleria e segreteria. Nella motivazione della predetta sentenza, che il collegio condivide pienamente, dopo aver evidenziato che, a norma dell'art. 196 c.p.p., di "ogni persona ha la capacità di testimoniare" e che quindi le deroghe a tale principio non possono che essere tassative e di stretta interpretazione, si affermava". Tali "deroghe" cioè debbono essere espressamente previste e non sono consentite interpretazioni analogiche o estensive. E difatti il codice ha previsto, da un lato, le ipotesi in cui vengono riconosciuti la facoltà o l'obbligo di astensione (artt. 199, 200, 201, 202 e 203 c.p.p.) e, dall'altro, i casi di incompatibilità a rendere testimonianza (art. 197 c.p.p.). Quest'ultima norma prevede, tra l'altro, che non possono essere assunti come testimoni "coloro che nel medesimo procedimento svolgono o hanno svolto la funzione di giudice, pubblico ministero o loro ausiliario nonché il difensore che abbia svolto attività di investigazione difensiva e coloro che hanno formato la documentazione delle dichiarazioni e delle informazioni assunte ai sensi dell'art. 391 ter c.p." (art. 197 c.p., comma 1, lett. d). Per quanto in precedenza ricordato la nozione di "ausiliario" non può che essere intesa nel suo significato tecnico, senza la possibilità di comprendervi soggetti che tali non sono. Altrimenti verrebbe a derogarsi in modo arbitrario al principio che chiunque può rendere testimonianza (salvo i casi espressamente previsti), "creando" incompatibilità anche per soggetti non rientranti nelle categorie indicate e quindi non ritenuti dal legislatore incompatibili con l'ufficio di testimone. Il codice di procedura penale del 1930 all'art. 450 c.p.p. stabiliva che non potessero essere assunti come testimoni "i giudici, i magistrati, del P.M., i cancellieri, i segretari, anche se appartenenti a giurisdizioni speciali, i quali hanno avuto parte per ragione del loro ufficio negli atti del procedimento, non possono essere assunti come testimoni". La norma era quindi chiarissima nella individuazione dei soggetti ausiliari del giudice o del p.m. (cancellieri e segretari). Nella elaborazione del nuovo codice di procedura penale si è preferito ricorrere alla nozione unitaria di ausiliario, senza per questo allargare le ipotesi di incompatibilità......". "Risulta evidente quindi che le parole "cancelliere" e "segretario" vengono sostituite da quella unificante di "ausiliario". E tale è colui che appartiene al personale di cancelleria e di segreteria, come emerge dall'art. 1 del regolamento (D.M. 30 settembre 1989, n. 334) e dall'art. 126 c.p.p., secondo cui il giudice, in tutti gli atti ai quali procede è assistito dall'ausiliario a ciò designato a norma dell'ordinamento". Tanto premesso non c'è dubbio alcuno (non è dedotto neppure dalla ricorrente) che la dr.ssa B. non abbia mai rivestito la qualifica, nel senso sopra delineato, di ausiliario del p.m.. Conseguentemente non sussiste nei suoi confronti la eccepita incompatibilità ad essere assunta come teste a norma dell'art. 197 c.p.p., comma 1, lett. d) o (a prescindere da quanto si dirà di seguito) ad essere nominata consulente. A parte i rilievi della Corte territoriale è assorbente il fatto che le norme in tema di incompatibilità previste dall'art. 225 c.p.p., comma 3 non trovano applicazione nei confronti dei consulenti del P.M. nominati ex art. 359 c.p.p. Risulta, invero, chiaramente dalla collocazione sistematica della norma che le incompatibilità previste per il perito ed i consulenti riguardino la perizia ed il suo espletamento. Le medesime "garanzie" non hanno invece ragion d'essere quando si tratti di una consulenza di parte disposta dal P.M. in sede di indagini preliminari. La giurisprudenza di questa Corte è, infatti, orientata in tal senso "Nei confronti dei consulenti tecnici nominati dal p.m. ai sensi dell'art. 359 c.p.p. non trovano applicazione, neppure in via analogica, le ipotesi di incapacità ed incompatibilità previste dall'art. 225 c.p.p., comma 3; ne' gli accertamenti compiuti dal consulente del P.M. che si trovi in una delle situazioni previste dall'art. 222 c.p.p., comma 1, lett. a), b), c) d), richiamato dal suddetto art. 225 c.p.p., possono essere annoverati tra gli atti inutilizzabili" (cfr. Cass. pen. sez. 2, 7.6.1995 -Cerrone).
- Quanto agli altri motivi dei ricorsi, va ricordato che, come ribadito costantemente da questa Corte, pur dopo la nuova formulazione dell'art. 606 c.p.p., lett. e), novellato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che la motivazione della pronunzia: a) sia "effettiva" e non meramente apparente, ossia realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia "manifestamente illogica", in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell'applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente contraddittoria, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente "incompatibile" con "altri atti del processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso per Cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (Sez. 6A, 15 marzo 2006, ric. Casula). Non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità, ne' che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica l'analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l'individuazione, nel loro ambito, di quei dati che - per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un'unica spiegazione - sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. È, invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l'esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l'intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così à a vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (Sez. 6A, 15 marzo 2006, ric. Casula). Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti "atti del processo". Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi - anche a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi "atti del processo" e di una correlata pluralità di motivi di ricorso - in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale "esistenza" della motivazione e sulla permanenza della "resistenza" logica del ragionamento del giudice. Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell'ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l'iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione (cfr. Cass.sez. 1, n.42369/2006). 3.2.1) Esaminata in quest'ottica la motivazione della sentenza d'appello si sottrae alle censure che le sono state mosse, perché il provvedimento impugnato, con motivazione esente da evidenti incongruenze o da interne contraddizioni, ha puntualmente indicato le risultanze probatorie da cui emerge la prova della responsabilità dell'imputata in ordine a tutti i reati ascrittile. Rinviando anche alla motivazione della sentenza di primo grado (è pacifico che in caso di conferma le motivazioni si integrino, dando vita ad un unico corpo argomentativo), la Corte territoriale ha adeguatamente e logicamente motivato in ordine alla assoluta credibilità della deposizione della madre di M. in ordine a quanto constatato direttamente o appreso dal bambino (l'audio registrazione era stata decisa ed eseguita di concerto con la dr.ssa B.). Tale deposizione, ancorata a fatti concreti, precisi nella collocazione temporo-spaziale, priva di rimproveri o giudizi morali, trovava numerosi riscontri nelle dichiarazioni di I.G., delle maestre, di Bi.Gi.. Peraltro già il Tribunale aveva evidenziato l'estrema cautela mostrata dalla G. nella vicenda, sottolineando che "..l'input investigativo non nasce da una denuncia sporta da una irosa e vendicativa ex coniuge. La G. infatti si è limitata a prendere suo malgrado atto (da qui nacque l'allarme per la madre) di alcuni comportamenti eccessivamente sessualizzati di M. all'asilo... e addirittura in quell'occasione a parlare con le maestre all'asilo la madre non ci va personalmente ma acconsente a che ci vada il padre" (pag.28 sent.Trib.). L'assenza poi di segni fisici rilevanti, a parte il fatto che erano state riscontrate sbucciature sul pene del bambino curate dal pediatra con il cortisone, non apparivano decisive, trattandosi evidentemente di manipolazioni o contatti non eccessivamente invasivi. Secondo i giudici di merito, poi, la narrazione del piccolo M. era precisa nella collocazione temporo-spaziale degli abusi e nella attribuzione dei ruoli. La lettura del verbale in forma riassuntiva e della trascrizione dell'intervista in sede di incidente probatorio attestavano che non vi erano state suggestioni o pressioni sul minore. Le critiche mosse dai consulenti della difesa all'elaborato ed alle valutazioni della dr.ssa B. risultavano prive di pregio, avendo la predetta escluso, con osservazioni logiche e coerenti, che le esperienze, i comportamenti, i racconti del piccolo potessero essere indotti da giochi infantili a sfondo sessuale. Infine dagli atti emergevano elementi per ritenere non attendibili le dichiarazioni rese dal giovane B.D.S. F.. Il complessivo apparato motivazionale, coerente ed immune da vizi logici, della sentenza impugnata non viene certo intaccato dai rilievi difensivi che si risolvono, sostanzialmente, in una diversa, e più favorevole alla ricorrente, interpretazione delle risultanze processuali, o in censure di merito, come tali, improponibili in questa sede di legittimità. Nè il complessivo corpo argomentativo può essere scardinato da omissioni motivazionali su singoli e non decisivi aspetti della vicenda. È assolutamente pacifico, invero, che "Nella motivazione della sentenza il giudice di merito non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata" (Cass.pen. Sez.4 n.1149 del 24.10.2005- Mirabilia; v. anche Cass.sez.un.n.36757 del 2004 Rv.229688).
- Quanto al reato di cui al capo d) la motivazione sintetica della Corte di Appello, va integrata per relationem con quella puntuale dei giudici di primo grado, i quali avevano ritenuto provata senza ombra di dubbio la responsabilità dell'imputata anche in ordine al reato di cui all'art. 609 quinquies c.p.. Dopo aver ricordato il "contesto ambientale", ampiamente significativo ("... tenuto conto dei comportamenti della D.S. che la teste G. vide con i suoi occhi nell'occasione in cui si recò a casa dell'imputata a riprendersi il bambino (si allude all'episodio del giardino in cui l'imputata, anche alla presenza dei minori, dette esibizione delle sue avance sessuali sia verso il S. che verso lo stesso F.), richiamava le dichiarazioni inequivocabili rese da M. al termine dell'incidente probatorio.
- Anche in ordine alla sussistenza del reato di cui all'art. 388 c.p. i giudici di merito motivano, adeguatamente ed ineccepibilmente, sia in fatto che in diritto. Sottolineano, invero, da un lato, che tale reato è a forma libera, per cui deve ritenersi eluso il provvedimento del giudice civile che concerna l'affidamento di minori da tutti quei comportamenti che pongano nel nulla o aggirino le finalità cautelari del provvedimento medesimo. Ed è infatti pacifico, secondo la giurisprudenza di questa Corte, che la valutazione del contenuto del provvedimento e degli obblighi che ne derivano sui destinatari non deve essere compiuto in termini letterali ma alla luce dell'interesse dei minori che lo ispira e che ne costituisce la ragion d'essere. Dall'altro, hanno evidenziato che l'ordinanza del Tribunale, a parte e prima del divieto di incontri, imponeva innanzitutto la separazione del bambino dalla madre al fine di evitare possibili condizionamenti nell'ambito della vicenda processuale. E con una analisi attenta dei comportamenti tenuti dalla D.S. la Corte territoriale ha ritenuto, in modo non censurabile, l'avvenuta elusione del provvedimento medesimo.
- Non è censurabile la motivazione neppure in ordine al rigetto della richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale. La rinnovazione del dibattimento nella fase di appello ha carattere eccezionale, dovendo vincere la presunzione di completezza dell'indagine probatoria del giudizio di primo grado. Ad essa può, quindi, farsi ricorso solo quando il giudice la ritenga necessaria ai fini del decidere. Secondo la giurisprudenza di questa Corte "in tema di rinnovazione, in appello, della istruzione dibattimentale, il giudice, pur investito con i motivi di impugnazione di specifica richiesta, è tenuto a motivare solo nel caso in cui a detta rinnovazione acceda: invero, in considerazione del principio di presunzione di completezza della istruttoria compiuta in primo grado, egli deve dar conto dell'uso che va a fare del suo potere discrezionale, conseguente alla convinzione maturata di no poter decidere allo stato degli atti. Non così viceversa, nella ipotesi di rigetto, in quanto, in tal caso, la motivazione potrà essere implicita e desumibile dalla stessa struttura argomentativa della sentenza di appello, con la quale si evidenzia la sussistenza di elementi sufficienti alla affermazione, o negazione, di responsabilità" (cfr. Cass, sez. 5 n.8891 del 16.5.2000; Cass.sez. 6 n.5782 del 18.12.2006). In ogni caso, quanto all'omesso esame della consulente Bo., non risulta neppure allegata la decisività dello stesso.
- I giudici di merito hanno correttamente e motivatamente esercitato il loro potere discrezionale nella determinazione del trattamento sanzionatorio, escludendo la concedibilità delle circostanze attenuanti generiche e, comunque, la possibilità di una attenuazione della pena in considerazione della particolare intensità del dolo, desumibile dalla reiterazione delle condotte criminose, e dei gravi danni, psicologici e morali, cagionati ad un minore quasi infante e ad un adolescente. Ed è indubitabile e pacificamente riconosciuto che non sia necessaria una analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, essendo sufficiente la indicazione degli elementi ritenuti decisivi e rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri. Non è necessario, quindi, scendere alla valutazione di ogni singola deduzione difensiva, dovendosi, invece, ritenere sufficiente che il giudice indichi, nell'ambito del potere discrezionale riconosciutogli dalla legge, gli elementi di preponderante rilevanza ritenuti ostativi alla concessione delle attenuanti. Ne consegue che le attenuanti generiche possono essere negate anche soltanto in base ai precedenti penali..." (cfr. ex multis Cass.sez.4 n.8052 del 6.4.1990; Cass.sez. 1 n.707 del 13.11.1998). Il preminente e decisivo rilievo accordato all'elemento considerato implica, infatti, il superamento di eventuali altri elementi, suscettibili di opposta e diversa significazione, i quali restano implicitamente disattesi e superati. Sicché anche in sede di impugnazione il giudice di secondo grado può trascurare le deduzioni specificamente esposte nei motivi di gravame quando abbia individuato, tra gli elementi di cui all'art. 133 c.p. quelli di rilevanza decisiva ai fini della connotazione negativa della personalità dell'imputato e le deduzioni dell'appellante siano palesemente estranee o destituite di fondamento (cfr. Cass.pen.sez. 1 n.6200 del 3.3.1992). L'obbligo della motivazione non è certamente disatteso quando non siano state prese in considerazione tutte le prospettazioni difensive, a condizione però che in una valutazione complessiva il giudice abbia dato la prevalenza a considerazioni di maggior rilievo, disattendendo implicitamente le altre. E la motivazione, fondata sulle sole ragioni preponderanti della decisione non può, purché congrua e non contraddittoria, essere sindacata in Cassazione neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell'interesse dell'imputato (cfr. Cass.pen.sez.6 n.7707 del 4.12.2003).
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Vanno preliminarmente esaminate le eccezioni in rito.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 7 aprile 2010.
Depositato in Cancelleria il 25 giugno 2010