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"In un mondo migliore"

Recensione di Joseph Moyersoen, giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano, del Film di Susanne Bier che ha vinto il Gran Premio della Giuria e il Marc’Aurelio del pubblico al Festival del Film di Roma 2010, ed è candidato all’Oscar 2011 come miglior film straniero.

Uno stuolo di bambini rincorre una camionetta che trasporta medici e infermieri gridando “How are you”. Il lungometraggio si apre con questa scena, siamo in un campo profughi di un paese dell’Africa nera. Sulla camionetta c’è Anton(Mikael Persbrandt), medico che partecipa ad un programma di aiuti umanitari in Africa, dove trascorre molto del suo tempo lontano dalla moglie Marianne (Trine Dyrholm) e dal figlio dodicenne Elias (Markus Rygaard). Quest’ultimo nel frattempo è costretto a subire una serie continua di atti di bullismo da parte di un gruppo di compagni a scuola nella piccola cittadina danese dove vive, finché non si trasferisce lì anche il coetaneo Christian (William Jøhnk Nielsen), da poco orfano di madre, con il padre (Ulrich Thomsen, già conosciuto per l’ottima interpretazione di “Festen” di Thomas Vinterberg, 1998).

La regista Susan Bier riesce a confezionare un’opera ben riuscita, che mette sul piatto molti argomenti. Infatti si tratta di un lungometraggio, alternando momenti di quiete e tensione, ricco di temi e di trame sovrapposte ed intrecciate fra loro: conflitto tra genitori e figli, crisi di coppia, bullismo e amicizia, violenza fisica e forza intellettiva, solitudine e altruismo, educazione e crudeltà, perdono e  ingiustizia e altro ancora.

L’arrivo di Christian nella classe di Elias cambierà radicalmente molte cose. Tra i due nasce una forte amicizia, Christian vendicherà le angherie subite da Elias pestando duramente il capobranco che assilla e perseguita il compagno. Ma da dove vengono la rabbia e il rancore di Christian contrapposti alle paure di Elias, che con il suo carattere forte e determinato colpisce molto quest’ultimo? Dove porterà il susseguirsi di vendette che trasformerà l’amicizia in una pericolosa alleanza e in un inseguimento mozzafiato in cui sarà in gioco la loro stessa vita? Saranno in grado i genitori dei due piccoli amici di fermarli in tempo prima che commettano qualche atto che potrebbe avere delle conseguenze tragiche ed irreversibili?

Sarebbe troppo rispondere a queste domande, perché si rivelerebbe la conclusione del film che merita di essere visto. Invece pare più interessante soffermarsi sui temi affrontati dalla regista danese, partendo proprio dall’amicizia tra i due giovani e bravissimi protagonisti. Elias è in preda ad un gruppo di bulli a scuola, e la regista focalizza molto bene l’attenzione sulle frustrazioni della vittima, che non rivela a nessuno, neanche alla madre, i reali motivi dei segni fisici, emotivi e psicologici delle violenze subite per paura di pagarne le conseguenze.

Christian invece ha un carattere forte, e sfoga la sua rabbia e il suo rancore per tante domande rimaste senza risposta sulla morte della madre, proprio su coloro che fanno del male ad Elias prima, e su Anton padre di quest’ultimo poi.

Anche il conflitto generazionale tra padri e figli è al centro dell’opera. Un conflitto dettato dalla difficoltà di comunicare da un lato, e dalla concentrazione sui propri problemi da parte dei padri dall’altro, perdendo così di vista un momento tanto delicato quanto problematico come l’adolescenza dei propri figli. I padri, emblemi della buona educazione, sono i più deboli e soccombono alla  rabbia dei figli che non riescono pure sforzandosi a guidare, perché l'istinto è più forte. I padri che da un lato trovano soddisfazioni professionali portando l’aiuto a chi ne ha più bisogno, come fa Anton nel campo profughi dove svolge l’attività di medico chirurgo e dove si scontra anche con un mondo che a sua volta si divide in buoni e cattivi, e dove i cattivi rappresentanti da “Big man” e dai suoi amici, che si divertono a scommettere sul sesso dei bambini mentre sono ancora nel ventre delle madri che Anton è costretto poi ad operare d’urgenza cercando di salvare dalla morte entrambi (madre e figlio). L'unico modo per far fronte alla violenza per Anton, è contrapporle l'etica del singolo, accompagnata alla sua ferrea volontà di non cedere di un passo di fronte al suo orrore, in qualsiasi forma esso si manifesti. E' questo che tenta di fare Anton, medico che divide la propria vita tra la disastrata missione in Africa e la sua vita in Danimarca, dove invece è la sua vita famigliare disastrata.

Non meno violenza c’è però nella società più progredita della cittadina danese dove vivono Elias e Christian, ben rappresentata dai piccoli bulli a scuola e dal grande bullo del porto, che nessuno ha il coraggio di contrastare. Come dire che la violenza attecchisce e si sviluppa ovunque, a prescindere dall'area geografica, dalla condizione culturale, sociale o economica.

Ma l’opera racconta anche di tanta solitudine, sia degli adulti (vedi la madre di Elias e il padre di Christian), sia dei ragazzi (vedi lo stesso Elias finché incontra Christian, così come di quest’ultimo nei difficili rapporti con il padre).

Da segnalare anche la fotografia di Morten Søborg che con la sua luce diafana scolpisce i visi e risalta le espressioni che, insieme alla musica di Johan Söderqvist che accompagna risaltando i passaggi cruciali, contribuisce a rendere più realistica e completa l’opera. La sceneggiatura è firmata Anders Thomas Jensen che, insieme alla regista, cura il soggetto.

Susanne Bier esordisce dietro la macchina da presa con “Songlines”, raccolta di videoclip per la band musicale tedesca Alphaville del genere pop/rock anni ottanta e, dopo la realizzazione di alcune opere sconosciute in Italia, con “Open Hearts” (2002) racconta un'intricata storia di sensi di colpa, domande senza risposta e rimpianti del passato, senza scadere in facili moralismi assolutori, seguendo alla lettera il manifesto del Dogma fondato da Lars Von Trier, di cui la registra è allieva portando con se l’insegnamento appreso anche nei lavori successivi attraverso quelle zoomate improvvise nei momenti clou e quell’intensità dei contenuti. Con “Non desiderare la donna d'altri” (2004), primo film venduto in tutto il mondo, la regista porta sullo schermo la storia di due fratelli, uno scapestrato e l'altro militare in carriera, che dovranno fare i conti con nuove responsabilità, quando uno dei due scomparirà in un incidente. Con “Dopo il matrimonio” (2006), riceve una nomination  all'Oscar come miglior film straniero e con “Noi due sconosciuti” (2008), interpretato da Halle Berry e Benicio Del Toro, racconta il sentimento che può nascere tra due "sconosciuti" provenienti da due mondo diversi se non contrapposti. Un filo rosso lega le opere di Susanne Bier, e più che il manifesto Dogma è il fatto di raccontare sempre piccole storie personali e familiari, tragiche ma allo stesso tempo commoventi come quella di “In un mondo migliore” che ha vinto il Gran Premio della Giuria e il Marc’Aurelio del pubblico al Festival del Film di Roma 2010, ed è candidato all’Oscar 2011 come miglior film straniero.

 
Joseph Moyersoen