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"Ruggine di Daniele Gaglianone"
Ruggine di Daniele Gaglianone. Recensione di Joseph Moyersoen
La ruggine è un composto spontaneo costituito da vari ossidi di ferro idrati e carbonati basici di ferro che, grazie alla presenza di ossigeno e acqua, origina con il trascorrere del tempo un fenomeno di corrosione. Una volta formatasi, la ruggine è difficile da rimuovere, si attacca alla pelle e a qualunque oggetto o corpo la sfiori e penetra nelle narici con il suo odore acre.
“Ruggine” è il titolo del quarto lungometraggio di Daniele Gaglianone, presentato alla Mostra del cinema di Venezia 2011 dopo il successo di “Pietro” al Festival del Film Locarno 2010.
Tratto dall’omonimo romanzo di Stefano Massaron, l’opera affronta con tatto e attenzione il complesso tema della pedofilia, indagando su cosa accade quando la violenza espressa, assistita o velata che sia, fa irruzione nella vita delle persone marchiandole spesso in modo indelebile. Altri registi si sono cimentati in questo tema, basti solo pensare a “Territori d’ombra” di Paolo Modugno (2001), “La bestia nel cuore” di Cristina Comencini (2005), “Sleepers” di Barry Levinson (1996), “Happiness” di Todd Solondz (1998) e “Amabili resti” di Peter Jackson (2009).
Il lungometraggio in questione è una storia corale realizzata su due piani narrativi con gli stessi protagonisti da bambini e da aduli e con un continuo e vertiginoso montaggio alternato di flash back e flash forward tra la fine degli anni settanta e i giorni nostri. Nella periferia di una città del nord Italia che potrebbe essere Torino, abitata da immigrati del sud che nel periodo della ripresa economica perseguiva il sogno del progresso ed emigrava dalla campagna e dalla povertà del sud Italia verso i sobborghi del benessere del nord. Questo ci ricorda che fino a poco tempo fa eravamo noi quelli che ora si chiamano rom, extracomunitari e immigrati. Il titolo quindi richiama anche la grave crisi finanziaria attuale, che trova origine in un processo di sviluppo economico deviato verso un capitalismo sfrenato.
La scena iniziale del film si svolge all’interno del “castello”, una rimessa abbandonata così soprannominata da una banda di bambini, con al suo interno stanze vuote e buie. Dentro vi sono solo particelle di ruggine che brillano a contatto coi raggi di sole filtranti dai piccoli fori delle travi che bloccano l’accesso alla luce del giorno. Sono i piccoli Cinzia e Sandro a far muovere il pulviscolo della ruggine all’interno del “castello”, con il loro respiro e con ogni minimo movimento dell’aria. Dopo il primo stacco, con un flash forward eccoli adulti, Cinzia (Valeria Solarino) fa la supplente in una scuola elementare, Sandro (Stefano Accorsi) fa il traduttore e Carmine (Valerio Mastrandrea) passa tutta la giornata oziando e lamentandosi in un bar.
Flash back. Arriva nel quartiere il dott. Boldrini (Filippo Timi), giovane pediatra considerato dai genitori un uomo colto di tutto rispetto, ma non è così buono e innocente come sembra e i bambini sono gli unici a capirlo, per questo saranno costretti a cavarsela da soli. Dietro la sua apparente normalità e formalità si nasconde un mostro che inizia a mietere vittime tra i bambini del quartiere. Come l’uomo nero delle fiabe, la sua ombra potrebbe ricordare “il mostro di Dusseldorf” di Fritz Land.
Ben costruito il “doppio” personaggio del pediatra, sia per la parvenza di normalità di cui si circonda, sia per l’abilità di accattivarsi la momentanea fiducia delle sue piccole vittime. E’ lo stesso pedofilo che con un altro flash forward assumerà forme diverse: un drago che Sandro materializza nel gioco con il figlio, una parte sofferente che Carmine continua a cercare di soffocare dentro di sé e alcuni superficiali colleghi insegnanti che Cinzia tenta di osteggiare.
Il personaggio del pediatra, incute non solo nei bambini ma anche nel pubblico fastidio ansia e paura. Queste sensazioni sono suffragate dall’utilizzo del suono sordo e metallico –per esempio quello della bici rotta e quello della mitragliatrice - che si amalgama perfettamente con l’immagine, tanto da potenziare il patos nei momenti cruciali della pellicola.
Anche la fotografia di Gherardo Gossi, che attribuisce sfumature africane alla periferia torinese reinventata fra Taranto e Formello, contribuisce a queste sensazioni.
La pellicola sottolinea che la ruggine lascia segni evidenti come i traumi infantili, che marchiano profondamente e visibilmente coloro che li hanno vissuti. Evidentemente nessuno ha aiutato i protagonisti in un percorso di rivisitazione e superamento di questi traumi, tant’è che se li sono portati dentro di sé fino all’età adulta.
Joseph Moyersoen