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"Miracolo a Le Havre"

Miracolo a Le Havre, l'ultimo fim del regista Finlandese di Aki Kaurismäki. Recensione di Joseph Moyersoen

E’ una bella favola poetica e universale, intrisa di speranza e d’amore, l’ultima opera del regista finlandese Aki Kaurismäki.

Il protagonista dal nome tutt’altro che casuale Marcel Marx (André Wilms), ex scrittore affermato e bohémien, si è trasferito a vivere con la moglie Arletty (Kati Outinen) a Le Havre per sentirsi più vicino alla gente comune, guadagnandosi qualche euro come lustrascarpe. E ci sarebbe fin troppo da pulire per terra la sporcizia provocata dalla cattiveria umana, per questo il protagonista si accontenta di pulire le scarpe, le cui impronte tracciano il terreno con il loro passaggio. Ma questo lavoro è sempre meno richiesto a causa della diffusione delle “sneakers”, infatti è emblematica la scena in stazione, dove Marcel vede solo passanti con scarpe da tennis.

Tutto procede nella quiete del suo triangolo quotidiano costituito dalla moglie Arletty, dal suo lavoro e dal pub dell’angolo, finché Marcel scopre che la moglie è gravemente malata di tumore e incontra per caso Idrissa (Miguel Blondin) minorenne proveniente dal Gabon braccato dalla Polizia portuale perché clandestino. “Ho visto Rin-Tin-Tin in TV e non c’è nessuna ragione che io non riesca a fare quello che è riuscito a fare un cane”, con queste parole Marcel non si perde d’animo e si rimbocca le maniche. Qui inizia dapprima una simpatia tra Marcel e Idrissa, poi un’amicizia che farà vivere ai due, una serie di incredibili situazioni tragicomiche. Il protagonista troverà la solidarietà della gente del quartiere, che lo aiuterà nel suo intento, ossia nascondere il ragazzo dalla Polizia e aiutarlo a trovare la somma necessaria per essere “traghettato” dalla madre che vive a Londra, grazie all’organizzazione di un concerto Rock di beneficenza. Non sfugge il personaggio del poliziotto, interpretato da Jean-Pierre Daroussin, che sembra uscito da un film di Melville e che ne ripropone la carica morale.

Presentato al 64° Festival del cinema di Cannes e premiato dal pubblico al Festival del Film Locarno 2011, l’opera di kaurismäki è ambientata in un’atmosfera dickensiana nel quartiere portuale della periferia di Le Havre. In un’intervista, il regista ha affermato che quando ha iniziato a fare cinema (diciotto pellicole fa) voleva imitare Jean-Luc Godard, e che con questo film si era messo in testa di imitare Vittorio De Sica. Ha inoltre dichiarato: “L'architettura moderna urta il mio sguardo, non potrei mai girare, ad esempio, davanti al Palazzo delle Nazioni Unite a Bruxelles, ho bisogno di spogli segni di civiltà, come porti e zone industriali”.

Nell’opera di Kaurismäki si affronta con leggerezza ma non superficialità il tema delle politiche repressive di Sarkozy contro l’immigrazione clandestina, come nel pluripremiato “Welcome” di Philippe Lioret anche se in modo meno crudo e diretto. Anche a Kaurismäki  non piacciono queste leggi sull’immigrazione che considera contro l’umanità. Infatti per lui è un crimine fermare, arrestare, rinchiudere gli immigrati che da paesi poveri e in guerra giungono in “zone d’attesa”, veri e propri centri di detenzione.

Bravissimo l’interprete del ragazzo immigrato, che da solo riesce a trasmettere il disagio degli emarginati  e dei profughi.

“Miracolo a Le Havre” è caratterizzata dalla sintesi e dalla semplicità, che sottendono una graffiante ironia con cui il regista esprime la sua profonda visione dell'uomo, la sua conoscenza del nostro tempo, nonché la sua grande cultura personale e cinematografica.  L’opera ricorda il cinema francese degli anni trenta - da Marcel Carné, regista de “Il porto delle nebbie”, tratto da un romanzo di Jacques Prévert e girato proprio a Le Havre, a René Clair - trasportato negli anni cinquanta, periodo cui risalgono le musiche che accompagnano la pellicola. La fotografia del fedele Timo Salminen è sempre di grande espressività e, arricchita dalla calda gamma di tonalità, conferisce alla trama un'atmosfera un po’  surreale senza tempo, che ben si sposa con questa favola metropolitana.

Ma è favola a lieto fine che arriva diritto al cuore, una favola che in tempi così bui regala puro ossigeno almeno al cinema e nella fantasia. Il regista ci vuole lanciare un messaggio di critica alla negatività e al cinismo della società liquida di oggi, ma anche un messaggio  di speranza. Sta a noi accettare di lasciarci trasportare in questa favola e credere nel miracolo.

 

Joseph Moyersoen