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"Il primo uomo di Gianni Amelio"

"Ogni bambino contiene già i germi dell'uomo che diventerà”. Recensione di Joseph Moyersoen dell'ultimo film di Gianni Amelio tratto dal romando di Albert Camus

La trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Albert Camus non dev’essere stata una passeggiata per il regista Gianni Amelio, infatti questo film arriva nelle sale cinematografiche dopo sei anni di travaglio, eppure così non pare dal risultato lineare, onesto e rigoroso.

Albert Camus, scrittore brillante e premio Nobel nel 1957, morì in un incidente stradale il 4 gennaio 1960 in Provenza. All’interno di quello che restava dell’auto incidentata, venne trovato un manoscritto incompiuto, un romanzo autobiografico che venne pazientemente ricostruito dalla figlia Catherine e pubblicato nel 1994, ossia oltre trent'anni dopo la morte del padre Albert. Era proprio “Il primo uomo”, testo che ha letteralmente conquistato Gianni Amelio che si è rispecchiato nel protagonista del romanzo, in quanto come lui non aveva conosciuto il proprio padre ed era stato cresciuto da due figure femminili dal carattere forte in un ambiente sociale difficile, come la sua Calabria del secondo Dopoguerra, dove i poveri non erano considerati in grado di accedere alla cultura.

Siamo nell’Algeria della metà degli anni ‘50. Il lungometraggio si apre con un’impressionante panoramica di un cimitero dei caduti durante la prima guerra mondiale, in cui il protagonista adulto Jacques Cormery (interpretato dall’intenso Jacques Gamblin),  alter ego di Albert Camus, cerca di trovare la tomba del padre Henry deceduto nel 1914 all’età di 25 anni, quando Jacques aveva solo 6 mesi. La voce narrante che ci accompagna nel viaggio di Jacques è proprio la voce del protagonista che, di fronte alla lapide della tomba del padre osserva: “Colui che scrive non sarà mai all’altezza di colui che muore”. Questa è solo la prima di una serie di citazioni tratte dal romanzo di Albert Camus.

Stacco e cambio scena in cui troviamo Jacques in azione nella sua veste di scrittore, chiamato a tenere una conferenza all’Università di Algeri sul futuro dell’Algeria e la frase che pronuncia: “Il destino di un scrittore non è quello di mettersi al servizio di coloro che fanno la storia, ma di quelli che la subiscono”, ci fa subito comprendere da che parte sta il nostro protagonista. In un momento storico in cui sta per scoppiare il conflitto franco-agerino, in cui attraverso le bombe e i messaggi estremisti vengono fomentate le diversità tra pied noir – francesi nati in terra africana - e arabi, Jacques continua imperterrito a sostenere la loro parità e pacifica convivenza. L’occasione di Jacques, trasferitosi da tempo in Francia, per tornare ad Algeri è anche quella di fare un tuffo nel suo passato, incontrando o ricordando tutte le persone importanti della sua formazione: il padre mai conosciuto, la madre, la nonna materna, il maestro e il compagno di scuola,  nonché i luoghi e ciò che resta della sua infanzia trascorsa tra le mura di una città in grande trasformazione.

Da qui inizia un continuo salto temporale tra presente e passato con la tecnica del flashback, che ci fa conoscere Jacques da bambino (interpretato dall’espressivo Nino Jouglet), contornato da coloro che ne hanno formato la personalità e segnato il destino. Sono molte le scene e i personaggi che segnano la storia e il destino di Jacques, ma la figura che più ne ha forgiato il carattere è la nonna materna, figura austera e autoritaria, matriarca rigida e intransigente.

E’ sicuramente il carattere della nonna che pervade e domina tutta la struttura narrativa dell’opera di Gianni Amelio. Infatti il percorso di vita del protagonista è più razionale e meno passionale, rendendo anche meno agile una dinamica empatica del pubblico nei suoi confronti.

Altro momento formativo è l’incontro con il maestro Bernard che aveva molto seguito e sostenuto Jacques da bambino. Riferendosi al premio Nobel ricevuto, rammenta al maestro: “Quando mi è giunta la notizia, il mio primo pensiero, dopo che per mia madre, è stato per lei” [...] “senza di lei, senza quella mano affettuosa che lei tese a quel bambino povero che ero io, senza il suo insegnamento e il suo esempio, non ci sarebbe nulla di tutto questo”. Il maestro ribatte con la frase chiave che ha segnato anche la vita di Jacques: “Ogni bambino contiene già i germi dell'uomo che diventerà”.

Ma questa frase va ben oltre il significato immediato, perché va legata altresì al tema del viaggio e della memoria. Infatti Jacques compie questo viaggio anche doloroso, per scovare le convinzioni che lo hanno fatto diventare ciò che è nel presente. Il titolo dell’opera richiama proprio l’uomo che prima non c’era e poi c’è, il primo uomo appunto. Ma non si tratta solo di memoria individuale bensì anche collettiva, ossia una memoria che dovrebbe essere utilizzata come mezzo attraverso cui indagare le incoerenze del presente.

Gianni Amelio ci ha regalato molti lungometraggi degni di essere ricordati, con storie di padri, figli e fratelli. Dal pluripremiato a Cannes e ad altri festival “Ladri di bambini” (1992) con Enrico Lo Verso, sul lungo viaggio di un giovane carabiniere calabrese che ha il compito di accompagnare una bambina undicenne costretta dalla madre a prostituirsi e il fratellino in un istituto in Sicilia, a “Così ridevano” (1998), vincitore del Leone d’oro alla Biennale di Venezia, sempre con Enrico Lo Verso e Francesco Giuffrida che racconta attraverso il rapporto di due fratelli la difficile realtà dell'emigrazione nella Torino degli anni '50; dal commovente “Le chiavi di casa” (2004) con Kim Rossi stuart e Charlotte Rampling, storia di un padre che accetta dopo anni di riprendere il rapporto con il proprio figlio down partorito dalla moglie deceduta durante il parto, fino a “La stella che non c’è” (2006) con Sergio Castellitto, ambientato in Cina e tratto dal romanzo “La dismissione” di Ermanno Rea sul tema dell’emigrazione all’estero.

“Il primo uomo” è una coproduzione italo-franco-algerina realizzata in Algeria, snobbata dalla Biennale del Cinema di Venezia 2011 ma accolta trionfalmente dal Toronto International Film Festival, dove ha meritato il premio della critica internazionale.

Con uno stile essenziale ma allo stesso tempo elegante, il regista punta diritto al cuore senza tanti inutili arricchimenti estetici. Una menzione alla fotografia di Yves Cape che contribuisce al risultato grazie ad una inquadratura sempre pulita, primi piani sui volti segnati dalle vicende e una luce decisa e calda.

A proposito di fotografia, altro momento emblematico del film è l’immagine della madre di Jacques riflessa nel vetro della finestra che guarda il figlio allontanarsi mentre chiude le persiane, sigillando simbolicamente dentro di se il proprio dolore. Un gesto trasmesso dalla propria madre, che aveva insegnato a tutti il rigore del condotta e il controllo delle emozioni.