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"Detachment"
Recensione del film di Tony Kaye ambientato in un liceo di Chicago
E’ una sfida senza pari quella di insegnare lettere in un liceo pubblico della periferia di Chicago, caratterizzato dal più alto tasso di violenza, devianza e abbandono scolastico e frequentato dai “peggiori elementi del distretto”, per questo a rischio di privatizzazione.
E’ la sfida di Henry Barthes (interpretato da un intenso e malinconico Adrian Brody), insegnante supplente catapultato da una centrale e rinomata “High school” in un luogo abbandonato a se stesso, dove occorre lottare ogni istante solo per farsi accettare. Il contesto scolastico è emblematico: giovani senza ambizioni e speranze per il futuro, genitori disinteressati e assenti, professori disillusi e demotivati.
Il lungometraggio di Tony Kaye, è costruito in modo da arrivare dritto al cuore dello spettatore e da attirarlo nel mondo che racconta attraverso più piani narrativi: la voce fuori campo del protagonista con scene delle sue esperienze attuali e infantili; la voce degli adulti che ricordano le loro esperienze scolastiche adolescenziali e gli insegnanti confrontati con le grandi e spesso insormontabili difficoltà quotidiane. Sono quindi gli adulti al centro del lavoro, mentre i veri protagonisti del mondo scolastico restano più sullo sfondo: gli adolescenti scontrosi, furiosi, impulsivi o introversi, con le loro grandi fragilità e le loro potenzialità spesso schiacciate dalle proprie storie familiari e sociali.
La prima inquadratura è scandita dalle parole con cui Henry esprime il proprio stato d’animo e la condizione scelta per stare nel mondo: “Non mi sono mai sentito così profondamente distaccato da me stesso, e al contempo così presente al mondo”. Parole che danno anche il titolo al film, tratte da un romanzo di Albert Camus; parole che caratterizzano anche la sua posizione lavorativa: insegnante supplente che quindi può mantenere una certa distanza da tutti: allievi e colleghi.
E’ il primo giorno di scuola e Herny deve subito fare i conti con la nuova realtà e con i ragazzi cosiddetti “irrecuperabili”. Egli si dedica all’incarico apparentemente senza sentimenti da ferire o da offendere, come se le durezze della vita lo avessero oramai anestetizzato. Ma il suo atteggiamento disilluso gli permette anche di non essere sopraffatto dalla negatività e dal pessimismo che inghiotte gli altri insegnanti e consulenti scolastici, abbandonati a se stessi sia nel lavoro che nella vita privata.
Si scopre subito che la vita di Henry è divisa in due, da un lato la “mission” di questa nuova sfida, dall’altro la vita privata tra un nonno oramai senza memoria e in fin di vita ed Erica, una minorenne caduta nel baratro della prostituzione e della droga, che Henry tenta di aiutare a trovare una strada di vita meno vuota e distruttiva. Interessante il parallelo tra uno spezzone di repertorio sulla disciplina imposta dal Furer (forse utilizzato per richiamare il precedente lavoro del regista) e il collega di Henry totalmente rassegnato e incapace di farsi rispettare.
Henry cerca di coinvolgere i ragazzi nelle sue lezioni, ricordando che la lettura serve a coltivare la propria coscienza e ad evitare l’assimilazione passiva del male, che l’unico modo per sopravvivere è il preservare la propria mente dai messaggi vuoti e superficiali che il mondo attuale martella costantemente e ovunque.
A fianco a lui un cast di tutto rispetto: James Cann, insegnante navigato e ironico, Lucy Liu, consulente scolastica stressata e demotivata, e Marcia Gay Harden, preside sulla via di licenziamento.
Diretto dall’eclettico artista britannico Tony Kaye, proveniente dalla regia pubblicitaria e già conosciuto per il precedente successo di “American History X”, un film sul razzismo e il neo-nazismo negli Stati Uniti e sulla fragilità psicologica di due fratelli, per cui è valsa ad Edward Norton la nomination all’Oscar come migliore attore protagonista. Ma soprattutto un altro lavoro sullo scontro/relazione tra adulti e adolescenti, girato con uno stile realistico quasi documentaristico. Una menzione alle scelte visive del regista, che gioca anche sul contrasto tra il bianco e nero degli inserti documentaristici iniziali e una fotografia dai toni caldi.
Non è il primo lavoro sul genere scolastico. Basti ricordare “Il seme della violenza” di Peter Brooks (1955), “l’attimo fuggente” di Peter Weir (1989) e il più recente “La classe” di Laurent Cantet (2008).
Con “Detachment” il regista è riuscito a cogliere le falle del sistema scolastico americano e le conseguenze nefaste che si ripercuotono su allievi e insegnanti. Tuttavia è pervaso da un pessimismo cosmico, come emerge in modo lampante quando Henry, analizzando gli adolescenti di oggi mai così carichi di insicurezze e privi di prospettive, dice: “E’ una grande missione quella di guidare i giovani, perché oramai si sentono delle ombre insignificanti prive di ogni speranza”.
Joseph Moyersoen