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"Sister (L'enfant d'en haut)"

film: recensione di Jospeh Moyersoen del film di di Ursula Meier

Ecco un altro titolo maltradotto, che nella versione italiana sposta l’attenzione dal protagonista (“L’enfant d’en Haut” ossia “Il bambino dall’alto”) al personaggio con il quale convive (“Sister” ossia “Sorella”).
Fin dalla prima inquadratura tra gli ingranaggi di una funivia svizzera, si comprende che quest’intensa opera di formazione ruota proprio intorno alla vita solitaria e deprivata di Simon (Kacey Mottet Klein), ragazzino di 12 anni dedito al furto, anche su commissione, di attrezzature sciistiche ai turisti sulle piste (sci, snowboard, caschi, occhiali e guanti) che rivende ad amici e conoscenti.
Simon vive a valle nell’edifico popolare conosciuto come “le torri”, che si trova isolato tra campi incolti e autostrade. Tutti i giorni sale in funivia in tenuta sportiva per trascorrere la giornata sulle piste, non per sciare bensì per derubare i benestanti turisti.
Sembra che Simon non abbia genitori e che al suo fianco ci sia solo una “sorella” maggiore Louise (Léa Seydoux), ragazza interrotta, irrequieta e anaffettiva, che con grande agilità appare e scompare dalla vita di Simon, dedita alle pulizie quando capita e ovunque vi sia bisogno (hotel e chalet di lusso), ma anche all’alcol e alle frequentazioni di ragazzi altrettanto sbandati e violenti. Louise è incapace di imporre qualunque regola a Simon, essendo lei stessa priva di regole.
Sono chiari i forti contrasti e i doppi piani messi in luce dalla regista, come la distanza fisica e verticale tra le classi sociali, con in basso nella grigia vallata la miseria e desolazione della vita di Simon e Louise, mentre in alta montagna sulla candida neve l’allegria e il benessere dei turisti sulle piste. Simon è il piccolo che si occupa della grande Louise tant’è che porta a casa il cibo e i soldi che servono ad entrambi per vivere. Simon che però fatica a badare a se stesso e gioca sul confine di questa doppia vita, riuscendo ad intenerire una bella e ricca turista americana conosciuta sulle piste (Gillian Anderson), ma anche a farsi picchiare da uno sciatore a cui  aveva poco prima sottratto occhiali e guanti con l’inganno. Il rapporto di Simon con il denaro è la chiave di lettura del mondo ma altrettanto estremo: denaro provento di furti che Simon conta in modo ossessivo e trasforma in latte e carta igienica, ma anche mezzo con cui Simon pensa di comprare l’affetto di Louise e l’attenzione dei turisti. Questi contrasti si allargano anche alle altre inquadrature degli ambienti messi a fuoco dalla regista: la baita, che se da un lato mostra la sua facciata scaldata dal sole con i turisti in pausa relax, dal lato opposto nasconde nella fredda penombra i lavoratori stagionali che si muovono freneticamente nelle cucine per soddisfare proprio le richieste dei turisti; l’appartamento dove vive Simon, che se da un lato ha tutti gli apparecchi e utensili necessari, dall’altro a volte manca di cibo e di qualcuno che lo cucini al ragazzo.  
Scavando sempre più a fondo nella storia e nella vita del protagonista, viene rivelato in modo del tutto inaspettato qualcosa che provoca nello spettatore la rottura di ogni schema e prospettiva iniziale.
Quest’opera controllata e minimale di Ursula Meier, vincitrice del meritato Orso d’oro 2012 al Festival del cinema di Berlino, ricorda sia per la struttura narrativa che per le tecniche di ripresa il neorealismo europeo di film come “Rosetta” (1999), “Matrimonio di Lorna” (2008) e “Il ragazzo con la bicicletta” (2011) dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne: contesti di miseria umana ed economica, lettura asciutta e diretta delle vite altrui, cinepresa che segue i personaggi spesso con uno sguardo silenzioso e ravvicinato. Senza tanti giri di parole, anche Ursula Meier va dritta al cuore e allo stomaco, riuscendo nelle scene più forti e coinvolgenti a non cadere mai nel melodrammatico.
Una nota anche alla colonna sonora di John Parish e alla fotografia di Agnès Godard, che qualcuno ricorderà per “Nuovomondo” di Emanuele Crialese (2005) e “Anime erranti” (2003) di André Téchiné.
La stagione sciistica finisce e tutti partono. Simon torna sulle piste mentre la neve lascia oramai il posto ad un paesaggio brullo e si ferma a dormire nei pressi della solita baita, questa volta immersa nel più totale silenzio e solitudine. All’alba del giorno dopo Simon scende a valle in funivia, incrociando anche simbolicamente Louise che invece sale in tenuta da lavoro.
L’urlo finale di Simon è un urlo liberatorio? Avrà imparato che nella vita ci sono anche altre strade possibili da percorrere? La pista da sci per esempio, durante l’inverno era coperta da un manto bianco e liscio di neve che Simon percorreva con la tenuta sportiva per mimetizzarsi fra gli sciatori, ora è scaldata dal sole primaverile e rende visibili tutti i tratti sconnessi delle discese di terriccio: buche, sassi e pozze di fango. Chissà se Simon in questo passaggio stagionale riesce a cogliere l’essenza di ciò che sta oltre al manto innevato dai suoi artifizi e raggiri.