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"La bicicletta verde (Wadjda)"

Recensione del firm della regista saudita Haifaa Al-Mansour

Il suono della voce delle donne non dovrebbe oltrepassare questa porta. La voce della donna è la sua nudità.” Sono parole come pietre quelle di Hussa, severa preside della scuola religiosa frequentata dalla piccola protagonista Wadjda. Parole lapidarie intrise di secoli di storia del wahabismo, ossia una delle correnti più radicali dell’Islam, in cui la donna ha un ruolo decisamente secondario nella società, non deve mostrare il corpo e il volto nascosti da un burka nero, coloro simbolo di impurità, in contrapposizione agli uomini vestiti di bianco, simbolo di purezza. Il racconto si dipana alla periferia di Riyadh intorno alla vita di due donne, madre e figlia, divise da illusioni e speranze, accettazione e ribellione dalle rigide regole dettate da questa rigida cultura islamica. 

L’opera di Haifaa Al-Mansour, prima regista donna dell’Arabia Saudita, si apre con una sequenza su una prova di canto religioso delle bambine a scuola. Wadjda, interpretata dalla giovane e disinvolta Waad Mohammed, viene ripresa dall’insegnante di religione perché distratta e per punizione viene cacciata fuori dall’aula, costretta ad attendere la fine dell’ora sotto il sole torrido di mezzogiorno. Non sfugge fra le prime inquadrature quella sulle sue All-Star dai lacci viola, che colpiscono in mezzo alle scarpe delle compagne di scuola, tutte nere e anonime. Wadjda ha una madre (interpretata dalla star della TV Reem Abdullah) molto bella e affettuosa, che insegna in una scuola dall’altro lato della capitale, costretta a farsi ogni giorno 3 ore di viaggio con altre insegnanti e con l’autista Iqbal, un pakistano burbero e insofferente. Anche il padre di Wadjda lavora lontano, ma rientra a casa sempre più di rado e le due donne comprendono che la nonna paterna sta già architettando un secondo matrimonio per lui, per fargli avere quel figlio maschio che la madre di Wadjda non è riuscita a dargli.

Wadjda è una ragazzina sensibile e intelligente ma anche molto testarda e sognatrice,  tutt’altro che remissiva. Vorrebbe competere con il coetaneo Abdullah, figlio di vicini di casa e uno dei pochi ad avere già una bicicletta con cui scorrazza libero per le vie del quartiere. Un giorno,  tornando da scuola, Wadjda vede in un negozio che vende un po’ di tutto, una bicicletta verde e ne rimane folgorata. Wadjda sarebbe disposta a molti sacrifici per potersi comprare quella bicicletta verde, anche perché la madre le dice subito che non gliela regalerà perché alle donne è proibito girare in bicicletta a causa del fatto che, dice lei, compromette la loro fertilità.

Ma per Wadjda non è semplice raccogliere la cifra (800 riyal, circa 165 €) per poter acquistare la bicicletta, neanche incrementare la vendita e raddoppiare il prezzo degli scoubidou (braccialetti di fili colorati incrociati) che fa per le compagne di scuola o favori “a pagamento”, come per esempio portare una lettera al presunto fratello di una di loro, che poi si scopre essere in realtà il suo amichetto con il quale la compagna sarà costretta poi a sposarsi nonostante la giovane età (14-15 anni). Così Wadjda si iscrive ad una gara indetta dalla scuola con varie prove sul Corano, visto che il primo premio è proprio una somma in denaro (1000 ryal) e si impegna molto per la preparazione dell’esame finale.

Questo lungometraggio ha ottenuto il patrocinio di Amnesty International, che da tempo appoggia le rivendicazioni per la libertà di movimento delle donne saudite. Sia nel 1990 che nel 2011, molte donne si sono messe simultaneamente alla guida di autoveicoli, in aperta sfida alle autorità locali. Infatti va ricordato che, pur potendo prendere la patente, alle donne saudite è proibito guidare. Occorre inoltre ricordare che in Arabia Saudita le proiezioni pubbliche di spettacoli cinematografici sono vietate. Tuttavia “il consumo di film, assai elevato, avviene in ambito familiare” anche perché “il numero dei videoregistratori (e lettori dvd) venduti è altissimo”.

Alla presentazione del film nella Sezione Orizzonti della Biennale del Cinema di Venezia 2012 Haifaa Al-Mansour ha rappresentato le difficoltà di girare un film a Riyadh, raccontando per esempio che in alcune circostanze ha dovuto dirigere la troupe da dentro il furgone della produzione, con l’ausilio di un walkie-talkie. La regista ha già realizzato dei cortometraggi dimostrando capacità e coraggio a trattare argomenti sensibili e complessi come il ruolo della donna nella società araba, la tolleranza, le tradizioni, fino al fondamentalismo e ai rischi dell’ortodossia. La regista non risparmia critiche alla società in cui vive, società in cui l’uomo impera e la donna è costretta a subire. La regista sta evidentemente dalla parte di Wadjda, dalla parte delle donne. Lo si comprende per come contrappone le figure femminili, di cui inquadra sempre il volto in primo piano, presenti, coraggiose e decise, rispetto alle figure maschili, sfuggenti e a volte inquadrate solo da lontano oppure di piedi. Inoltre mentre le donne hanno tutte un nome nel film, gli uomini, a partire dal padre di Wadjda al candidato alle elezioni, il nome non ce l’hanno come se anche la loro identità fosse messa in discussione. Solo il piccolo Abdullah, coetaneo e amico di Wadjda, e l’autista pakistano Iqbal, hanno un nome, ma non fanno parte del mondo maschile arabo adulto, preso di mira dalla regista.

Un oggetto al centro dell’opera è la bicicletta. Altri lungometraggi sono stati realizzati con una bicicletta nel ruolo da co-protagonista, tra cui si segnalano: “Ladri di biciclette” (1948) di Vittorio De Sica, film che rappresenta una delle massime espressioni del neorealismo cinematografico italiano; “Le biciclette di Pechino” (2001) di Wang Xiaoshuai, che si ispira al film di De Sica e nel quale una bicicletta è oggetto di disputa tra due ragazzi, Guo Liang cui viene rubata e Li Bin che l’acquista al mercato delle pulci; “Appuntamento a Belleville” (2003) di Sylvain Chomet, film di animazione ambientato nella Francia degli anni ’30 in cui un ragazzino orfano dei genitori e amante della bicicletta sogna di diventare un campione di ciclismo; “Il ragazzo con la bicicletta” (2011) di Luc e Jean-Pierre Dardenne, in cui la bicicletta rappresenta l’unico legame, impossibile da spezzare, che unisce un ragazzino e il proprio padre naturale. Ma nel film della Al-Mansour la bicicletta è simbolo sia di disuguaglianza tra uomini e donne che di libertà. Quella libertà che tante ragazzine sognano, ma che crescendo poi pian piano dimenticano appiattendosi sulle rigide regole imposte dagli uomini e dalla cultura islamica radicale. Forse la storia di Wadjda può essere letta anche come una speranza che qualcosa possa cambiare in quella società e, per farlo, occorre partire proprio dalle pure e incontaminate giovanissime generazioni.


Joseph Moyersoen